Quest’anno, all’84esima edizione degli Academy Award, tira aria di cinema delle origini e bianco e nero. Dopo lo strepitoso successo del francese The Artist (candidato a dieci premi Oscar), ecco Hugo Cabret (che lo batte per una nomination) a riproporre la magia di quella stagione pionieristica.
Hugo Cabret
Regia: Martin Scorsese
Interpreti: Asa Butterfield, Ben Kingsley, Sacha Baron Cohen, Chloë Moretz
Provenienza: USA
Durata: 127 min.
Produzione: GK Films, Infinitum Nihil
Parigi, anni ’30, il piccolo Hugo Cabret, orfano di entrambi i genitori, vive nascosto nella stazione di Montparnasse, dove cerca di sopravvivere ai controlli dell’intransigente ispettore ferroviario Gustav (e del suo inseparabile cane Maximillian), che lo vorrebbe mandare in un istituto. Hugo si occupa della manutenzione dei numerosi orologi dell’edificio, continuando l’opera di suo zio Claude, vecchio ubriacone recentemente scomparso, ma le sue giornate sono in realtà dedicate al tentativo di riparare un misterioso automa meccanico, ultimo cimelio che lo lega al suo amato padre.
L’unico modo per farlo, però, è attraverso piccoli e reiterati furtarelli al chiosco dei giocattoli della stazione, bottega gestita da un burbero anziano dall’aria perennemente triste. Ma un giorno, privato del prezioso taccuino necessario alla riparazione dell’automa, il ragazzino entrerà in contatto con un grande mistero, e grazie all’aiuto di Isabelle, figliastra dell’uomo, vivrà la più importante avventura della sua vita, alla scoperta dell’ultima vera magia del mondo: il Cinema.
Una fiaba, un parabola circolare come il quadrante di un orologio, una serie di personaggi che sono dei meccanismi inceppati, che soltanto le azioni del temerario Hugo potranno aggiustare. Un film pieno e denso, con numerosissime chiavi di lettura (magari a forma di cuore), anche e soprattutto dal punto di vista stilistico. Mai visto prima un 3D così efficace e ben sfruttato, intelligente e funzionale (forse dai tempi del sottovalutato Coraline). La tecnologia stereoscopica viene usata qui, per giocare con l’identità in bianco e nero dei tanti film muti che vengono scoperti da Hugo e Isabelle, ed amplifica il contrasto fra la sensazione di analogico di quegli anni e gli effetti digitali di oggi. Un po’ come se le moderne illusioni tecnologiche omaggiassero i primordiali effetti speciali di Georges Méliès, padre del cinema fantastico.
E poi, mai visto un Martin Scorsese così. Il regista di film gangster per eccellenza, del disagio della vita metropolitana e di tanti personaggi tormentati, abbandona i toni foschi di una vita per dipingere una variopinta storia per l’infanzia. In molti si sono domandati il perché di questo suo cambio di rotta, una virata dal sapore spilberghiano, che ricorda un po’ quella di David Fincher nel 2008, quando lasciò la strada del thriller per avventurarsi nel Curioso Caso di Benjamin Button. In questo caso l’esito è nettamente migliore, e inoltre, a guardare bene in profondità la filmografia di Scorsese, ci si rende conto che non è mai stato un autore cinico, ma sempre, in qualche modo, profondamente morale. Dall’assiduità del suo rapporto con il Cinema (anche documentaristico), traspare la passione che il regista italoamericano ha sempre infuso nelle sue storie, e nei confronti dei suoi personaggi. Un amore per il linguaggio cinematografico stesso, nato nella gioventù trascorsa nella sua New York, durante le ripetute giornate trascorse nei cinema del Queens, dove poteva evadere dalla realtà (e dal suo asma).
Adesso, a 70 anni, Scorsese sembra voler restituire un po’ del bene che il Cinema gli ha fatto, realizzando questo sentito omaggio ad uno dei suoi più poetici inventori. La storia contenuta nel libro scritto e splendidamente illustrato da Brian Selznick (un romanzo ibrido con un fumetto, anche se nelle recensioni sui giornali va di moda chiamarlo graphic novel), è dovuta sembrare perfetta al regista, per operare questa sua lode al Cinema. Perché è a questa parte che dedica le maggiori attenzioni, convertendo i vecchi film in 3D, e raccontando la storia di Méliès come lui stesso l’avrebbe raccontata, con un velo di magia, nostalgia, e leggenda. Ma in Hugo Cabret c’è anche molto di più. Il ritratto di una Parigi, e una serie di personaggi di contorno, che sembrano usciti da un film di Jean-Pierre Jeunet (vedi Amélie o L’esplosivo piano di Bazil), la tematica del tempo che passa, la solitudine, l’infelicità, e la necessità di un rapporto famigliare, per un orfano che ricorda molto l’avventuroso Oliver Twist.
Fra tutto questo, è comprensibile che la sceneggiatura del fuoriclasse John Logan non sia impeccabile come al solito, e appaia talvolta sbilanciata, rimanendo comunque uno script ben al di sopra la media. Così come lo è il resto dell’apparato tecnico (il che spiega la pioggia di candidature agli Oscar): la coloratissima fotografia di Robert Richardson, le musiche “francesizzate” di Howard Shore, e la sempre impressionante scenografia dei nostri Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, che meriterebbero sicuramente la terza statuetta in carriera. Ottima anche la prova del cast, in cui spiccano il giovane protagonista e l’esuberante verve di Sacha Baron Cohen, con prestigiosi comprimari come Christopher Lee e Jude Law (oltre all’ormai consueto cammeo dello stesso Scorsese).
Quest’anno, sembra che con l’avanzare del progresso e dell’evoluzione tecnologica del Cinema, alcuni autori abbiamo voluto dare uno sguardo all’indietro, alle radici e ai pionieri della settima arte. Ad un’epoca fondamentale per noi oggi, che possiamo vedere, e fare film, grazie a quelle menti visionarie ormai scomparse. Scorsese sembra allora voler stringere loro la mano, e ringraziare da qui, dal futuro, assicurandogli che il loro lavoro e il loro insegnamento, non è stato dimenticato. Mentre per quanto lo riguarda, Hugo Cabret va a porsi come uno dei suoi film più importanti e personali, confermando, se mai ce ne fosse stato bisogno, il grande valore della sua inimitabile ricerca artistica.
Voto: 8,5