Cinecomics n. 1 – Superman
“Crederete che un uomo possa volare.”
Gli anni ’70 furono tempi particolarmente duri per l’Uomo d’Acciaio. In un’epoca segnata dalla guerra del Vietnam e dallo scandalo Watergate, il personaggio simbolo dell’american way era considerato sorpassato e le vendite del fumetto subirono un brusco calo. Nonostante gli sforzi degli sceneggiatori della DC Comics per conferire alle storie una maggior rilevanza sociale, Superman non riusciva a riacquistare popolarità. Nell’immaginario collettivo stava diventando una figura pacchiana, protagonista di musical parodistici e zimbello dei comici televisivi.
Fino a quel momento, inoltre, i cinecomics erano stati una sfilza di prodotti di serie B e tutti avevano ancora negli occhi la serie tv kitsch di Batman. Appare dunque evidente quale rischio si assunsero i produttori russo-messicani Alexander e Ilya Salkind, padre e figlio, e il loro socio Pierre Spengler, nel voler realizzare una trasposizione cinematografica di Superman. Riuscirono ad accaparrarsi i diritti dalla DC Comics che formulò una clausola d’integrità del personaggio assicurandosi il controllo su ogni aspetto della produzione. I Salkind stipularono anche un negative pick-up con la Warner Bros. In sostanza, i produttori ottenevano i finanziamenti da terzi e lo studio di distribuzione avrebbe rimborsato il budget solo alla consegna del film.
Dopo la garbata rinuncia di William Goldman, sceneggiatore premio Oscar per Butch Cassidy, i Salkind assunsero Mario Puzo, l’italoamericano autore de Il padrino, per scrivere il soggetto. Puzo trascorse tre giorni negli uffici della DC a leggere e studiare il materiale sull’Uomo d’Acciaio. Vi riconobbe all’istante gli stilemi di una tragedia greca. Nel 1934, mentre in Europa Hitler sbraitava i suoi deliri sulla superiorità della razza ariana appellandosi ad una visione distorta dell’ubermensch, il superuomo ipotizzato da Nietzsche, in America, due fumettisti ebrei, Jerry Siegel e Joe Shuster, idearono Superman quasi a voler dimostrare che, qualora fosse davvero esistito un essere superiore, avrebbe dovuto mettere le sue capacità al servizio dei più deboli piuttosto che utilizzarle per dominarli. Oltre ai miti greci, l’archetipo principale di Superman è Mosé, l’eroe ebraico per antonomasia. Salvati in fasce da un eccidio, entrambi vengono adottati e, raggiunta l’età adulta, ricevono la loro missione in un eremo, il monte Horeb per Mosé, la Fortezza della Solitudine al Polo Nord per Superman. Pur affondando le proprie origini nel mediterraneo, tuttavia, la sua condizione d’immigrato (com’erano immigrati i genitori di Siegel e Shuster) fanno dell’Uomo d’Acciaio l’esaltazione della più genuina cultura statunitense. Attingendo da questi elementi, Puzo scrisse un soggetto romanzato di cinquecento pagine e i produttori decisero di trarne due film da girare contemporaneamente.
I Salkind volevano nomi di prima grandezza per i ruoli principali ma sia Robert Redford che Paul Newman rifiutarono di interpretare Superman. Dustin Hoffman, invece, respinse il ruolo di Lex Luthor, il genio criminale arcinemesi dell’Uomo d’Acciaio. La svolta avvenne quando Marlon Brando, reduce dai successi mondiali de Il padrino e Ultimo tango a Parigi, accettò il ruolo di Jor-El, lo scienziato kryptoniano padre di Superman. Brando percepì tre milioni e settecentomila dollari per meno di mezz’ora di riprese ma la sua presenza diede legittimità al progetto, permise al film di ottenere i finanziamenti necessari e attirò l’attenzione di altre star.
Prima fra tutte Gene Hackman, premio Oscar per Il braccio violento della legge. Nonostante qualche indecisione iniziale, Hackman si convinse di poter dare concretezza ad un personaggio bidimensionale come Lex Luthor. A dirigere il film venne assunto l’inglese Guy Hamilton, regista di ben quattro capitoli della saga di 007. Intanto, gli sceneggiatori David e Leslie Newman, marito e moglie, insieme al collega Robert Benton, riadattarono il soggetto di Puzo. I tre sceneggiatori identificarono Superman come autentico mito americano, un Re Artù a stelle e strisce.
La preproduzione ebbe inizio a Cinecittà ma in Italia venne avviata un’azione legale contro Brando e Bernardo Bertolucci per Ultimo tango a Parigi, ritenuto osceno. La sterlina debole e i Pinewood Studios sgombri spinsero i produttori a spostare il carrozzone in Inghilterra dove sorse un nuovo problema. Guy Hamilton era un esule fiscale e poteva trascorrere solo un mese all’anno in patria. Il film restò così senza regista.
Su consiglio della moglie, Ilya Salkind contattò Richard Donner, fresco del trionfo al botteghino dell’horror-thriller Omen (Il presagio), e gli offrì su due piedi un milione di dollari per dirigere i due film. Donner ricevette la sceneggiatura per posta e trovò grossolana e parodistica l’interpretazione dei Newman e di Benton. In una scena, Superman scendeva in volo a salutare Terry Savalas, il Kojak della tv. In un’altra, Luthor rimuginava masticando fazzolettini. Donner voleva invece un approccio realistico e decise di realizzare il film come se si trattasse di una storia vera. Per questo motivo avrebbe realizzato dei cartelloni che riportavano la scritta “Verisimilitude”, verosimiglianza, e li avrebbe collocati sui set per spronare la troupe a non perdere di vista la visione artistica della pellicola.
Donner chiamò in soccorso l’amico, scrittore e consulente Tom Mankiewicz che rielaborò tutto come un dramma in tre atti. Il primo, ambientato sul condannato pianeta Krypton, aveva un tono da tragedia shakespeariana dialogata in un inglese classico. La seconda parte, a Smallville, la cittadina del Kansas in cui Clark Kent è cresciuto, era invece più calda, familiare ed intima. Le scene a Metropolis, infine, furono scritte proprio con uno stile fumettistico. Nella redazione del Daily Planet, le battute volano tra i personaggi con un ritmo da comedy pura. Sempre divertente ma in salsa più grottesca è Lex Luthor che pianifica un genocidio con una leggerezza che mette subito in guardia il pubblico sulla pericolosa follia del personaggio. Per Superman il tono usato fu altamente epico e drammatico, concepito con grande eleganza e rigore. Donner capì che il cuore del film sarebbe stata la storia d’amore tra l’Uomo d’Acciaio e Lois. Se il pubblico avesse fatto il tifo per loro e avesse raggiunto l’apice emotivo nella scena in cui Superman resuscita Lois sfidando le leggi degli uomini, allora il film avrebbe funzionato.
Per il ruolo di Superman, Donner voleva uno sconosciuto. La sua opinione era che il pubblico non volesse vedere Redford o Newman volare nei cieli di Metropolis. Voleva vedere Superman. Vennero provinati centinaia di attori. La moglie di Salkind fece fare un provino perfino al suo dentista. Lynn Stalmaster, direttore del casting, dopo parecchie insistenze, convinse la produzione a concedere un’opportunità a Christopher Reeve, un giovane attore teatrale che si esibiva in ruoli secondari a Broadway. All’epoca era magrissimo e si presentò al provino indossando un costume di Superman alla buona, con aloni di sudore sotto le ascelle e i capelli biondo rossicci tinti malamente di nero. Tuttavia, la naturalezza e la calma maturità che dimostrò fin dalle prime battute conquistarono tutti.
Il suo personal trainer, David Prowse, che aveva interpretato Darth Vader in Star Wars, lo portò dai 77 kg iniziali a 96 distribuiti su un metro e novanta di altezza. Reeve affermò: “Superman ha la saggezza di usare i suoi poteri per il bene e, allo stesso tempo, l’innocenza di guardare al mondo in modo molto semplice. Combattere per la verità, la giustizia e la libertà può sembrare un’affermazione ingenua ma nell’immaginario collettivo lui è un vero rappresentante di questi valori.” Reeve riuscì nell’impresa di creare una differenza convincente tra Clark e Superman. Nonostante il semplice cambio d’abito e un paio di occhiali, i due personaggi risultarono davvero distanti l’uno dell’altro, sia nell’indole che nel portamento, somiglianti nell’aspetto e niente di più. In seguito, Donner ha dichiarato che è stata l’interpretazione di Reeve a tenere in piedi il film e a renderlo credibile e che il suo Superman rimarrà per sempre quello definitivo. “Non interpretava Superman”, ha detto il regista. “Era Superman.”
Per Lois Lane venne scelta Margot Kidder, maldestra, adorabile e grintosa proprio come la reporter del fumetto. La Kidder riuscì a trasmettere la sua indole a Lois che risultò aggressiva con Clark e timida, quasi fanciullesca, con Superman. Una relazione ambigua che si rifletteva anche nell’affettuoso rapporto fraterno fra i due attori, punteggiato da immancabili e bonari bisticci suscitati dalla differenza caratteriale: lui tremendamente serio, lei molto più leggera e sfacciata.
Nel cast c’erano inoltre l’attore comico Ned Beatty e la bellissima Valerie Perrine, complici di Luthor. Susannah York era Lara, madre di Superman. Glenn Ford interpretò Jonathan Kent, il padre adottivo. Il giovane Marc McClure era Jimmy Olsen, fotoreporter ed amico dell’Uomo d’Acciaio. Keenan Wynn, che avrebbe dovuto interpretare il burbero caporedattore Perry White, subì un infarto e venne sostituito all’ultimo momento da Jackie Cooper che si rivelò assolutamente perfetto. Da bambino, Cooper aveva interpretato Skippy, monello protagonista di un altro cinecomic vincitore di un Oscar per la miglior regia. Infine, uno straordinario Terence Stamp diede il volto al dispotico generale Zod, un villain rimasto nel cuore di tutti i fans della saga. Stamp aveva preso parte anche al cinecomic su Modesty Blaise del ’66.
La squadra produttiva contava circa 80 nominati agli Oscar e dovevano lavorare in tempi stretti, con solo sei mesi di preproduzione. Tra i nomi più importanti figura John Barry, scenografo di Star Wars, che ipotizzò Krypton come “un cristallo dentro un cristallo”, un’interpretazione che è stata adottata in seguito anche nel fumetto. Il Canada fornì le pianure per Smallville, un paesaggio che sembrava uscito da un ritratto di Andrew Wyeth. New York e la redazione del News furono perfetti per Metropolis e il Daily Planet. Geoffrey Unsworth, già direttore della fotografia di 2001 Odissea nello Spazio e premio Oscar per Cabaret, diede al film una luce evanescente e leggermente impalpabile. La pellicola si apre con una dedica a lui, ricordato da colleghi e amici come un vero gentiluomo, scomparso poco prima dell’uscita del film. La costumista Yvonne Blake ideò gli abiti riflettenti dei kryptoniani e smorzò i colori sgargianti del costume di Superman. La “S” sul petto venne giustificata come un geroglifico kryptoniano che simboleggia la famiglia El e ogni famiglia del pianeta ne sfoggia uno diverso. Stuart Freeborn, esperto di make-up, che pure aveva lavorato in Star Wars e avrebbe dato le sue fattezze al maestro Yoda, si occupò della pelata di Luthor.
Le riprese iniziarono il 24 marzo del ’77 e durarono 19 mesi con uno dei più grandi budget di tutti i tempi e ben undici unità a girare due film contemporaneamente in due continenti diversi. Prima dell’arrivo di Donner erano stati spesi ben sei milioni di dollari nel tentativo di realizzare effetti visivi credibili per le sequenze di volo ma senza alcun risultato. Il reparto guidato da Colin Chilvers si adoperò allora con qualsiasi espediente artigianale: imbracature di cavi che resero le riprese lunghe, scomode e dolorose per gli attori; animazione, sospensioni cardaniche, blue screen, effetti pratici, fisici, ottici, retroproiezioni e quant’altro.
Il ritardo di produzione richiese un incremento del budget. La Warner, soddisfatta dalle riprese visionate, decise di investire il proprio denaro. L’intromissione dei distributori causò la perdita di potere dei Salkind e suscitò aspri dissapori con Donner. Le liti divennero frequenti e il regista dovette fare da chioccia alla troupe per far sì che l’armonia del set non venisse turbata. I Salkind assunsero come intermediario Richard Lester, che aveva diretto per loro due film su I Tre Moschettieri, girati anch’essi in contemporanea. Lester ebbe la sensibilità di non intromettersi nel processo di lavorazione ma coadiuvò Donner a mantenere il più possibile la distensione con i produttori. La situazione, tuttavia, restò precaria. Quattro anni di lavorazione stavano ormai esaurendo il budget. Si decise di interrompere la produzione del secondo film e di portare a termine il primo per verificarne l’esito. Il montaggio fu affidato a Stuart Baird, amico fraterno di Donner, con il quale nascevano in continuazione battibecchi bonari tipici del rapporto regista-montatore. Baird ricorda: “In quel periodo Donner mi licenziò almeno due o tre volte.”
Il dilungarsi della lavorazione causò anche un’indecisione nella scelta del compositore della colonna sonora. Il ballottaggio era tra Jerry Goldsmith, che aveva vinto l’Oscar per Omen, e John Williams, che si era aggiudicato già tre statuette per Il violinista sul tetto, Lo Squalo e Star Wars. Le date slittavano in continuazione e non coincidevano con gli impegni dei due artisti. Alla fine la spuntò Williams che realizzò un ampio capolavoro sinfonico infondendo un’anima e una voce musicale al film. Il tema di Superman è rimasto intessuto nella cultura americana e indissolubilmente legata al personaggio. L’idea geniale di Williams fu quella di inserire tre note che, a mo’ di sillabe, sembravano scandire la parola “Su-per-man” ad ogni apice del tema. La prima volta che lo ascoltò, Donner ne restò talmente stupefatto da scattare in piedi ad applaudire e rovinare la registrazione.
L’uscita del film era fissata per il 15 dicembre del 1978. La parte finale della produzione fu caotica e febbrile. Riprese, montaggio, effetti e colonna sonora venivano realizzati in contemporanea. In seguito agli screzi con Donner, i Salkind si rifiutarono di portare la prima copia del film alla Warner e non ci fu un’anteprima. Donner ne restò indispettito e fu costretto ad improvvisare il trailer montando delle semplici ma suggestive riprese aeree tra le nuvole.
Il 10 dicembre del ’78, alla presenza del presidente Carter, il film venne presentato con un galà a Washington e stupì perfino i suoi realizzatori. Tra gli invitati c’erano anche Siegel e Shuster che ringraziarono un commosso Donner donandogli un bronzo originale di Superman del ’36. Quando il film uscì nelle sale infranse ogni record d’incassi al botteghino. Le recensioni furono ottime e Colin Chilvers si aggiudicò un Oscar per gli effetti visivi.
Superman è stato il primo cinecomic a nobilitare il genere, un film su un’icona culturale che sarebbe diventato tale esso stesso. Il personaggio era stato reso umano e mitico al contempo, riacquistando una dignità ed una popolarità senza precedenti. É possibile dire che, con le dovute eccezioni, i cinecomics che hanno successivamente seguito le orme di Donner, in quanto a realismo, fedeltà tematica e rispetto per il mito, hanno avuto un ottimo riscontro di pubblico. Mentre le trasposizioni più stilizzate hanno soddisfatto solo il più ristretto popolo dei fans del fumetto ricorrendo ad un linguaggio ancora estraneo ad un pubblico più vasto.